Intervento di Enrico Borghi sul tema sanità.
La vicenda della sanità nel Verbano Cusio Ossola non è una questione tecnica, da consegnare al cesello ragionieristico di veri o supposti esperti di riorganizzazione aziendale ospedaliera.
Essa è vicenda politica. Anzi: geopolitica. Perché tiene insieme, lega e indissolubilmente mischia aspetti che travalicano il merito della questione, per affrontare il futuro di una comunità territoriale e il destino di realtà geografiche montane che hanno conosciuto nel corso dell’ultimo quindicennio un costante e, all’apparenza, inesorabile processo di depauperamento delle opportunità e di regressione dei diritti di cittadinanza.
E dentro a questa cornice, essendo una questione politica, si disegna anche un nuovo modo di concepire e articolare lo stesso esercizio democratico del potere.
Se non si capisce questo, o se si vuol far finta di non capire questo, inevitabilmente si colloca la vicenda lungo un piano inclinato in cui la disintegrazione del collante sociale e territoriale su cui ha retto per un quindicennio (alquanto fragilmente, in verità) il territorio del Verbano Cusio Ossola appare essere l’approdo finale.
Il San Biagio, l’ethnos ossolano
L’Ospedale San Biagio costituisce, non da oggi, il coagulo del sentimento identitario degli Ossolani.
Per motivi che meriterebbe approfonditi studi delle scienze sociali, su di esso nel corso di vent’anni si sono sedimentate le ansie, le speranze, le preoccupazioni di una popolazione che non ha ancora metabolizzato il passaggio dalla società industriale e chiusa del Novecento a quella liquida e globale del Duemila. Un passaggio che è stata la fine di antiche certezze (il posto fisso nel pubblico, la fabbrica che accoglieva operai e quadri, il commercio che fioriva nel capoluogo ossolano, una microsocietà di servizi fatta di spedizionieri, impiegati, finanzieri spazzata via dalla fine della frontiera) a cui non si sono sostituite nuove opportunità. Ma, al contrario, a cui si sono sostituite nuove incertezze, proprio nell’era in cui la “belle epoque” della globalizzazione rendeva più ricca tutta la pianura padana. Circostanza che ha fatto rifulgere antiche ingiustizie, tra le quali l’assoluta colonizzazione della Val d’Ossola che produce più energia idroelettrica di Lombardia e Veneto messe insieme ma che vede solo briciole sempre più rinsecchite in cambio di questo straordinario contributo allo sviluppo nazionale.
Sta dentro questa dicotomia il motivo per il quale questo “mondo minore” si è andato progressivamente scollando dalle istituzioni, dai partiti, dai sindacati, e si è cercato –spesso confusamente- un approdo diverso, a metà strada tra un impossibile ritorno indietro e un ingresso “mediato” nel mondo globale. A questa nuova “gens ossolana”, alle sue rabbie e ai suoi spaesamenti, la Lega Nord ha offerto mitologie, e il berlusconismo illusioni e megafoni.
Mentre la sinistra ignorava semplicemente questa mutazione genetica, spesso rinserrandosi anch’essa nella placenta delle sue antiche liturgie ormai consunte, la destra dava fiato a una sorta di identità mutante e bifronte dell’Ossola a cavallo dei millenni. Un’identità insicura e ansiogena, radicata e spaesata, solidale e impaurita al tempo stesso.
L’Ospedale San Biagio è diventato il precipitato di questa nuova identità. E’ diventato il luogo dell’ethnos ossolano, nel quale si condensano radici e prospettiva e sul quale si dimensiona il raccordo tra il passato e il futuro.
E con l’ethnos, con le heimat per dirla alla tedesca, insomma con l’identità c’è poco da scherzare. Perché la storia di questi anni ci insegna che è materia da maneggiare con cura. Quando l’identità diventa fobia ideologica, ci riporta alla tragica strada balcanica.
Eppure, su questo tema in molti –anche in Val d’Ossola- ci hanno giocato e sguazzato, promettendo province autonome, zone franche, aree a totale esenzione fiscale, per soffiare sul fuoco del risentimento e della voglia del rinserramento e incassare copiosi dividendi elettorali ad ogni tornata.
L’impasto Lega-Pdl ha strizzato l’occhio ad un improbabile ritorno a com’era verde la mia valle da un lato, e fatto intendere che bastava appaltare a loro potere e consenso per trarsi fuori dall’impiccio di questo primo scorcio di secolo in cui il destino cinico e baro ha chiuso le società degli spedizionieri, le fabbriche nel fondovalle, il comando della Guardia di Finanza, gli uffici decentrati della vecchia provincia di Novara e ha rattrappito in maniera impressionante la mammella di mamma Enel, un tempo turgida e oggi avvizzita.
Quella politica ha fallito su entrambe le direzioni di marcia, non ha saputo riportare indietro le lancette della storia come imprudentemente aveva lasciato intendere di saper fare e non ha saputo accompagnare questa società impaurita e frastornata dentro la nuova dimensione di una società mutata.
E alla caduta dell’illusione leghista e berlusconiana –testimoniata anche dalla clamorosa vittoria di Mariano Cattrini alla guida di Domodossola- la gens oscellae, che aveva appaltato ad essa una prospettiva dimostratasi fallace, si è guardata intorno e si è trovata, una volta di più, il baluardo al quale aggrapparsi: l’ospedale san Biagio.
E’ dunque così difficile capire perché, ancora una volta come nell’agosto del 2002 e senza che nessuna centrale organizzativa “tradizionale” si sia mossa, al grido di “giù le mani dal San Biagio” migliaia di ossolani si siano ancora una volta ritrovati a sfilare per le vie di Domodossola, con una partecipazione popolare spontanea e sentita per ritrovare la cui intensità bisogna probabilmente riandare ai tempi a cavallo dell’ultima guerra?
Una nuova domanda di politica
C’è un’ulteriore considerazione da fare su questa vicenda, a mio avviso innescata cinicamente –come nel 2002- per giungere al dozzinale baratto ora proposto :“a te il materno infantile e a me l’emodinamica”.
Veniamo accusati, noi sindaci del “documento 28 luglio” di essere asserviti alla piazza, soggiogati dalle nuove Masanielle delle valli e addirittura apprendisti stregoni che soffiano sul fuoco della demagogia populista. Tralasciamo pure il fatto che tra i pontefici di queste tesi vi è chi deve tutta la propria carriera politica ai collegi blindati, alle liste bloccate e al ferreo controllo del partito di appartenenza e della sua filiera di potere connessa, e che quindi fatica a capire che la democrazia è potere che sale dal basso e non che si impone dall’alto.
Ma si fa così fatica a capire che, in realtà, oggi in Ossola c’è una nuova domanda di partecipazione democratica? E’ così complicato leggere in quello che succede la spinta di una società che vuole esserci, non si rassegna, e che in maniera confusa e spesso contraddittoria chiede comunque alla politica due cose a cui essa non sembra essere più abituata, e cioè l’ascolto e la capacità di rappresentare dal basso anziché imporre dall’alto?
Se alle mamme col pancione del presidio (così come ai genitori dei disabili cui viene tolta l’assistenza, o ai cassintegrati che vedono chiudere lo stabilimento o ai frontalieri che vengono dileggiati oltreconfine) la politica non sa rispondere nient’altro che una scrollata di spalle o addirittura, come pretende il sindaco di Verbania, il “credere obbedire combattere” in cui il compito del sindaco è quello di “spiegare a chi contesta che così non si può andare avanti” (senza naturalmente dire dove bisogna andare nel frattempo!), allora si che quella “cosa” diventerà folla che diventerà piazza che spazzerà via una politica che viene vissuta solo come casta, politici nominati e autorefenziali e quindi ormai delegittimati.
Se fossi in Cota, anziché insistere in maniera puerile su una tesi insostenibile (se Domodossola è come la Thyssen perché sta sotto i 500 parti annui lo sono anche numerosi altri ospedali in Piemonte dove il metro di misura è evidentemente diverso…) ringrazierei quei Sindaci che l’altra sera, con grande sobrietà e senza alcun cedimento alla tentazione di accarezzare la tigre per il verso del pelo, hanno dimostrato che le istituzioni sono ancora ascolto, comprensione e rappresentanza. Perché se salta la diga della credibilità dei cittadini nei confronti delle istituzioni, l’acqua che ne esce spazza via tutto il sistema.
Da come la politica e le istituzioni locali sapranno governare questa vicenda dipendono tante cose. Dipende certamente il futuro della qualità della vita degli ossolani, e il fatto di essere considerati cittadini al pari di altri, attraverso l’esercizio del diritto alla salute. Dipende anche il futuro della Provincia del Verbano Cusio Ossola, compressa dentro una torsione che -tra spinte accorpatrici nazionali e pulsioni liquidatorie interne- rischia di far sublimare la sua attuale evanescenza in definitiva evaporazione. Ma ne va anche della nostra democrazia, in questi tempi –per dirla alla Salvadori- di “democrazie senza democrazia”.
Due modelli in campo
Sul campo oggi, in realtà, ci sono due modelli: quello del “diritto che precede” e quello del “diritto che procede”. Il diritto che precede è quello che nasce da istituzioni che si impongono dall’alto, ritengono che la loro capacità illuminista e razionalizzatrice sia la verità rivelata e non celano il fastidio davanti ad ogni dissenso, interpretato come indice di incapacità di comprendere o addirittura come insubordinazione. E’ la politica che vuole imporre, perché appunto precede il popolo.
Il “diritto che procede” è quello che nasce da istituzioni che nascono dal basso, ascoltano e rappresentano le proprie comunità e uniformano le proprie decisioni alla sintesi delle esigenze popolari, cercando il bene comune. E’ la politica che vuole accompagnare, perché segue e se del caso indirizza il popolo.
I Sindaci dell’Ossola hanno cercato di farsi interpreti del “diritto che procede”. La Regione Piemonte (e i suoi corifei locali, a cominciare dal sindaco di Verbania) sono splendidi interpreti del “diritto che precede”. Orizzontali e sussidiari i primi, verticali e gerarchici i secondi.
Già Tocqueville, nella “Democrazia in America” ci ricordava che il decentramento amministrativo, e quindi i Comuni che ne sono la prima forma istituzionale, è la prima garanzia di libertà in una società democratica, mentre l’accentramento è per sua natura autoritario e può essere un punto di partenza per il dispotismo. Inutile dire quale modello preferisco, che a mio avviso è anche quello corretto per tirar fuori questo territorio dal ginepraio nel quale è finito.
Ma se si preferisce essere più prosaici, sarebbe bene ricordarsi della prima scena del film “Giù la testa” di Sergio Leone, in cui un gruppo di aristocratici messicani su una diligenza svillaneggiano un peone messicano bifolco e ignorante ritenendosi superiori e più civili, finchè il peone e i suoi figli non mettono mano alle pistole e si impossessano della diligenza lasciando gli altezzosi nobili legati ad un cactus del deserto come mamma li fece.
Bene: non so se a Torino e dintorni qualcuno si senta come quegli aristocratici messicani, come pure a volte sembra lasciar trasparire qualche atteggiamento. Una cosa è certa: in Ossola si sono stancati di essere considerati dei peones beoti!