Giorni decisivi per la riforma del mercato del lavoro. La Direzione del PD ne discuterà lunedì e io mi auguro che la discussione sia vera. Chi difende il reintegro nel proprio posto di lavoro di un lavoratore licenziato senza giusta causa non è un conservatore, molto semplicemente si pone il problema di allargare le tutele e, con esse, la dignità del lavoro. Per questo è auspicabile che si eviti il diktat del prendere o lasciare.
In questi giorni, ho letto tutti i commenti di coloro che propongono di superare l’articolo 18 per i nuovi assunti, anche dopo tre anni dalla data di assunzione, ma nessuno di essi mi ha convinto. Mi sembra una concessione fatta alla destra. Niente di più, niente di meno. Non a caso Forza Italia è pronta a votare a favore di questo aspetto della riforma.
Una riforma del mercato del lavoro è urgente. Lo dicono tutti, quindi non è questo l’oggetto del contendere. Essa, però, per essere efficace e cambiare davvero il mercato del lavoro, deve comportare una drastica riduzione di quelle sei tipologie di contratto che, in questi anni, hanno generato precarietà e incertezze, umiliando milioni di ragazzi e di persone.
La precarietà nasce da questo, non dall’articolo 18. Il contratto a tempo determinato a tutele crescenti non può diventare la quarantasettesima, ma deve essere la forma contrattuale prevalente insieme a pochissime altre.
Perché lo diventi deve, però, essere conveniente e può diventarlo solo le imprese verranno incentivate ad adottarla. In secondo luogo, una seria riforma del mercato del lavoro deve prevedere una universalizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali, comprendendo quei lavoratori e quelle persone che, fino ad oggi, sono stati esclusi.
Questo ha un costo che deve essere quantificato e la relativa copertura finanziaria indicata nella legge di stabilità, cioè adesso. Una drastica riduzione delle tipologie contrattuali esistenti e l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali sono due facce della stessa medaglia e, proprio per questo, devono essere decise contestualmente. Infine vi è la questione del superamento dell’articolo 18. Il Governo e la destra prevedono che le tutele dell’articolo 18, per la parte che riguarda il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, non debba valere per i nuovi assunti con contratto a tempo determinato a tutele crescenti, nonostante questi lavoratori per tre anni non possano godere di tale tutela.
La motivazione è che il suo mantenimento nuoce alla crescita delle imprese e all’occupazione. Non è vero. Le imprese non assumono e, anzi, stanno licenziando, perché il Paese e l’economia non crescono ed il rischio è che la stessa cosa succeda anche nel 2015. I problemi delle imprese sono altri. Lo pensavano anche Renzi e Squinzi, ma oggi hanno cambiato opinione. Io credo che, decorsi tre anni, ad un nuovo assunto debbano essere garantite tutte le tutele previste dall’articolo 18.
E’ vero che nella maggioranza dei casi i licenziamenti senza giusta causa si sono conclusi con una conciliazione tra azienda e lavoratore, ma questa è una ragione in più per mantenere in vita questa tutela e per scoraggiare, anche in futuro, abusi e licenziamenti senza giusta causa, tanto più che per i primi tre anni i nuovi assunti non potranno contare su nessuna di queste tutele. Le regole e le norme esistono per affermare i diritti, in questo caso la dignità del lavoro, e per scoraggiare comportamenti illeciti. Qualcuno è in grado di dimostrare che tali comportamenti cesseranno di verificarsi? Non lo credo proprio, ma se è così non c’è nessuna ragione per superare questa tutela.
Marco Travaglini, Direzione regionale Pd Piemonte
Lavoro: Basta caricature e confrontiamoci sui fatti se vogliamo sul serio “cambiar verso”
1. Questa caricatura degli innovatori da una parte e dei vecchi conservatori dall’altra sarebbe saggio cancellarla. Se gli innovatori sono la destra che pensa di uscire dalla crisi riducendo i diritti e la dignità di chi lavora, io penso sia giusto stare dall’altra parte. Se invece l’innovazione è mettere al centro l’estensione di quei diritti anche a chi ne è privo si apre non un sentiero ma un’autostrada. In termini di principio e strategie. Nessuno vuole arrestare l’azione del governo. Ma è lecito domandarsi e capire se la direzione va nel senso dell’equità o di un’ingiustizia maggiore.
2.Ci sono tre parole chiave per aggredire la recessione italiana (e non solo): investimenti, redistribuzione, diritti. Le cause profonde della ‘crisi peggiore del secolo’ sono legate a una distribuzione squilibrata del reddito. Nei trent’anni gloriosi del dopoguerra la crescita era accompagnata da una distribuzione del reddito che andava in buona parte verso i lavoratori e l’emergere di una classe media. Aumentarono i consumi e la domanda aggregata, il che portava a incrementare produzione, investimenti e occupazione. In Italia, in meno di vent’anni circa 120 miliardi di euro (l’8% del Pil) si sono spostati dal lavoro ai profitti. Inoltre quei profitti sempre di più non vengono investiti nella produzione ma in dividendi e rendite. La conseguenza è che la classe media ha perso dignità, potere d’acquisto, coscienza di sé. Se la risposta a questo disastro è dare mano libera alle imprese per una rincorsa al ribasso dei salari puntando a compensare l’ulteriore calo della domanda interna con una febbre dell’export, forse non è chiara l’emergenza sociale che vivono milioni e milioni di famiglie.
3. Il neo commissario Katainen dice col ditino alzato che bisogna prendere le medicine e non basta averle sul comodino. Si può anche convenire ma è pur vero che le medicine, prima di tutto, si devono poter comprare. Ora, i paesi che in questa fase hanno gestito meglio il problema occupazionale hanno aumentato la spesa per le politiche per il lavoro (e tengono questa percentuale sopra il 2% del PIL). Noi abbiamo una spesa per le politiche per il lavoro storicamente inferiore al 2%. Circa 17 miliardi. La Germania ne spende 48, la Francia 50, la Spagna 40. Quanto alla composizione di quella spesa, dovrebbe andare per il 12% ai servizi, per il 38% alle politiche attive e per il 50% ai sussidi di disoccupazione. Così accade in Germania, Francia, Olanda. Nel nostro caso: i sussidi superano il 75%, le politiche attive il 20 e i servizi per l’impiego meno del 5. Risultato: in Francia ci sono circa 70 mila orientatori e consulenti pubblici per aiutare chi cerca lavoro, in Germania sono 80 mila. Noi poco più di 7 mila operatori pubblici. In Francia c’è un orientatore ogni 40 disoccupati, da noi uno ogni 400. Vogliamo parlare di questo e dare al governo tutto il sostegno che serve a migliorare le performance del nostro mercato del lavoro su questa frontiera? Bisogna aggiungere che solo noi e i greci non abbiamo uno strumento generale di sostegno al reddito per chi cerca lavoro, di tipo universale e condizionato all’attivazione e all’aumento delle capacità?
4. L’abolizione della reintegra ( articolo 18) è un totem? Un tabù? Una bandiera strappata che difende una manciata di lavoratori e non fa parte dello spirito del tempo? Ci vuole pazienza dopo anni di questo martellamento. Basterebbe la logica. Se davvero fosse solo quello, non si capirebbe la furia che ispira i teorici della sua cancellazione. Il punto è che dietro quella norma c’è banalmente un principio. Non un’ottusa convinzione degna dei libri di storia. Un principio. Togli quel principio e apri la via a un mercato del lavoro diverso, qualitativamente diverso. Dove sarà più facile governare “l’uscita” come spiegano con eleganza quelli che hanno studiato. Ma dove soprattutto si sarà certificato che a prevalere è stato un pensiero disposto a sacrificare una parte della parola ‘dignità’ nel nome di un’efficienza fasulla e priva di qualunque riscontro. Questo mestiere di solito lo fa la destra. E’ la destra che parla di apartheid. Noi dovremmo pensare che la via giusta è quell’altra. Fare ciò che nessuno fa: investimenti pubblici come leva di quelli privati, immaginare i settori dove investire perché saranno quelli che descriveranno il profilo produttivo tra cinque o dieci anni. Picchiare la mano sul tavolo e dire che questa è la sola linea che può salvare l’Europa. Se poi, in mezzo al tutto, dedicassimo la stessa cura che diamo a smobilitare qualche diritto a recuperare metà dei centoventi miliardi di evasione, ecco allora forse si capirebbe meglio chi siamo e per cosa ci battiamo. Così si “cambia verso” nel concreto e non a chiacchiere.
Marco Travaglini, componente assemblea provinciale PD VCO