Il 12 febbraio di quest’anno L’Unità ha compiuto novant’anni. Il 31 luglio di quest’anno ha cessato le pubblicazioni, messa in liquidazione. Per chi ha avuto l’opportunità – e l’onore – di scrivere su quel giornale fondato da Antonio Gramsci, com’è capitato per diversi anni a me, sono fatti di straordinario rilievo. Positivo, il primo. Drammatico, da far venire la pelle d’oca e il groppo in gola, il secondo. Gli anniversari combinano sempre storia e memoria. Nel calendario privato di ciascuno di noi a prevalere è la seconda. Nel calendario civile – quello che accompagna la vita di una nazione– prevale quasi sempre la prima. Poi capitano eventi e date che queste due cose – storia e memoria – si mescolano in un modo inestricabile. Per chi l’ha confezionata, diffusa, letta, commentata, persino ostentata come un simbolo, una bandiera, è qualcosa d’importante, di prezioso. Non è “solo” un giornale: è L’Unità. Che le feste quest’anno siano tornate ad organizzarsi in quel nome, voglio considerarlo come un auspicio positivo e non come un’amara beffa del destino. Il 12 febbraio del 1924 , quando Antonio Gramsci fondò quel quotidiano pensava ad un giornale della sinistra. E quel titolo – che lui definì “puro e semplice” – doveva parlare a operai e contadini, ma avere anche un significato più generale. Quel giorno di novant’anni fa, Antonio Gramsci scrisse “Io propongo come titolo L’Unità, puro e semplice, che avrà un significato per gli operai e avrà un significato generale… Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti, le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con un tono disinteressato, come se avesse una posizione alla lotta e si ponesse da un punto di vista ‘scientifico”. Un anno tremendo, orribile quel 1924. Il 10 giugno il fascismo sequestrò e uccise Giacomo Matteotti. Gramsci era stato appena eletto deputato e il fascismo stava imponendosi con la repressione e la violenza. Qualche mese dopo, il 16 maggio del 1925, Gramsci, nell’unico suo discorso parlamentare, denunciò la natura dispotica del regime guidato da Benito Mussolini. Da quelle vicende, ci separano novant’anni, poco meno di un secolo. L’Unità questo tempo lunghissimo lo ha vissuto raccontando l’Italia, l’Europa, il mondo. Lo hanno fatto giornalisti, scrittori, intellettuali, dirigenti politici. Lo hanno fatto nella clandestinità e poi lungo l’intera parabola della Repubblica. Pasolini, Quasimodo, Calvino, Pavese, Garcia Lorca o Hemingway: sono solo alcune delle firme che all’Unità hanno consegnato parole e testimonianze del loro tempo. Direttori, redattori, inviati e tutti gli altri giornalisti;tipografi ,linotipisti, dattilografe; i diffusori che (tutte) le domeniche portavano nelle case il giornale e gli ispettori che, come Bruno Salvai, visitavano incessantemente le edicole per garantirne la miglior diffusione. E’ un patrimonio che sarebbe un eresia disperdere. Un giornale – ogni giornale – è come una tessera del mosaico nella storia di un Paese. A quella tessera che porta il nome ( “puro e semplice”) de L’Unità i democratici, i progressisti e la sinistra italiana sono legati da un affetto e una passione civile profondi. Ora tocca ad un tribunale nominare un commissario. A quel punto le cose potranno soltanto peggiorare o migliorare. Peggiorare, perché se nessuno si farà avanti, la strada obbligata sarà il fallimento e l’addio definitivo. Migliorare, se si troverà una soluzione editoriale e societaria seria e convincente, così che L’Unità possa riaffacciarsi nelle edicole. Alla prima non voglio nemmeno pensare. E attendo di tornare al più presto, come ogni mattina di tutti i giorni, ad acquistare il “nostro” giornale.
Marco Travaglini