La discussione che si è aperta nel Pd sulla legge elettorale, a seguito della accelerazione imposta dal segretario, rischia di scontare un tasso di strumentalismo talmente elevato da non far cogliere il
punto vero in campo, che è quello delicatissimo del futuro della democrazia italiana.
Vi è fra di noi chi attribuisce alla riforma elettorale un compito quasi palingenetico. In realtà, occorrerebbe ritornare al concetto di “funzionalità” della legge elettorale, lo stesso concetto che indusse il costituente nel 1946 a non inserire nella carta fondamentale il sistema elettorale proporzionale allora in uso.
La legge elettorale, in altri termini, è lo strumento funzionale all’articolazione di due essenziali perni della democrazia: la rappresentanza e la governabilità.
Spetta a chi ha il compito della sovranità popolare, e cioè al Parlamento, articolare in rapporto ai momenti storici tale strumento, lungo l’asse che lega queste due polarità.
Per evidenti motivi di carattere storico, l’immediato dopoguerra vide il pendolo oscillare in direzione della rappresentanza, ma fu lo stesso De Gasperi ad avvedersi dei limiti strutturali di un meccanismo elettorale che -tutto fondato sulla logica coalizionale e sulla assoluta proporzionalitàrendeva il governo prigioniero del frazionamento della propria base parlamentare.
La risposta di De Gasperi, ovvero una correzione maggioritaria che riposizionasse l’asse della democrazia più a favore della governabilità, fu la cosiddetta “legge truffa” che nel 1953 non scattò per poco, e che venne immediatamente rimessa nei cassetti insieme con l’oblio del leader democristiano, aprendo la strada alla democrazia dei partiti e poi al consociativismo che tanto peso ha avuto nella storia d’Italia e nelle sue dinamiche sociali, istituzionali ed economiche.
Il tema venne poi ripreso nel crepuscolo finale della Prima Repubblica, con l’incidere tumultuoso dei referendum Segni che portarono a far accettare il maggioritario a furor di popolo ad una classe politica ontologicamente proporzionalista, dentro la logica del “Mattarellum” che coniugava governabilità con rappresentanza mediante un mix adeguato di collegi uninominali maggioritari e di riserva per il cosiddetto “diritto di tribuna” anche alle forze minori.
Il “Porcellum” del 2005 riuscì a far scadere all’indietro complessivamente gli equilibri, riuscendo nel raro esercizio di non assicurare la governabilità andando contemporaneamente scapito della rappresentanza, oltre che della libera scelta degli eletti da parte degli elettori.
E quindi siamo arrivati all’oggi.
Dentro la compressione del pendolo tra rappresentanza e governabilità, una cosa sfugge e a mio avviso risulta essere essenziale.
Nella cosiddetta Prima Repubblica, non era il meccanismo della legge elettorale ad assicurare l’equilibrio politico e la qualità della democrazia. Ma era la modalità con la quale la democrazia si organizzava nelle sue forme rappresentative, e cioè i partiti.
I partiti, in altri termini, erano una sorta di “terreno trascendente” nel quale si collocavano le logiche della rappresentanza, dello scontro, della sintesi e della mediazione che solo dopo si trasferivano sul piano istituzionale.
Per questo, i congressi di partito erano il luogo decisivo per la formazione delle scelte e delle classi dirigenti. Per questo, quando la Dc andava a congresso l’Italia si fermava una settimana.
Oggi non è più così. La stessa idea della democrazia rappresentativa è in crisi, anche a seguito della sclerotizzazione dei suoi processi di autoriforma che hanno determinato dapprima la nascita del partito-azienda e successivamente il prorompere del non-partito di Grillo fondato sul concetto del superamento della democrazia rappresentativa con la democrazia diretta, mediata esclusivamente dalle nuove tecnologie.
Per questo, il cuore del problema, e cioè il futuro della democrazia, della sua qualità, della sua espansione o regressione, non sta nella legge elettorale. Ma sta nella forma partito. E cioè in quale modo si intenda dare attuazione, dopo 70 anni, all’articolo 49 della Costituzione, e cioè stabilire come si possa concorrere nella società liquida e nell’era del potere cieco di mercati, della perdita della sovranità statuale e della crisi della rappresentanza alla determinazione della politica nazionale mediante l’associazione in partiti e l’utilizzo del metodo democratico.
Non è una domanda banale. Perchè non possiamo attribuire ad uno strumento funzionale, una legge elettorale, una risposta che è tutta e squisitamente di natura politica.
In altri termini, la qualità della nostra democrazia futura non sarà data dalla modalità di funzionamento di questa o quella legge elettorale, ma da come risponderemo a due domande fondamentali: ha ancora senso la democrazia rappresentativa? E se sì, come?
Renzi coglie, dentro la riforma dell’Italicum, l’antica suggestione ed esigenza degasperiana: la democrazia, per funzionare, ha bisogno di essere decidente.
E quindi il Parlamento deve essere luogo della decisione, oltre che della rappresentanza e della mediazione. Da qui la sua proposta, che può essere condivisibile o meno, ma che ha un impianto e una filosofia circolare, che si sposa con la riforma costituzionale in atto.
Serve a poco alimentare paure, o suggestioni di possibile regressione democratica. Non potrà mai esserci nessuna legge elettorale democratica che possa impedire ad un popolo di eleggersi un dittatore. Adolf Hitler non arrivò alla cancelleria annullando le elezioni politiche federali del 5 marzo 1933, ma vincendole trionfalmente giungendo primo in 33 su 35 circoscrizioni!
Il problema è il carattere della democrazia, il suo ethos, non lo strumento funzionale con il quale essa si esercita e si esplica.
Perchè noi potremmo anche trovare la legge elettorale sulla quale tutto il Pd, miracolosamente e improvvisamente, si compatta. Ma non potremmo poi sfuggire ad un altro bivio.
E cioè: come si selezionano le candidature? Dal basso o dall’alto? Con il partito delle primarie o il partito delle tessere? Con il condizionamento decisivo dei media (e di chi li controlla) o con l’inquinamento da parte delle logiche feudali con cui molti territori si sono riorganizzati?
E quali sono gli strumenti di garanzia, di controllo, di equilibrio all’interno di un partito, e dei partiti, in un’era nella quale il Pd è rimasto l’unico (l’ultimo?) partito con uno statuto democratico, una scalabilità, un radicamento territoriale, un presidio sull’intero territorio nazionale, una militanza reale e non artificiale.
Il partito politico per come lo abbiamo conosciuto, e cioè l’evoluzione del notabilato ottocentesco verso un soggetto in grado di assorbire dentro di sé la maggiore complessità sociale del corpo elettorale, e quindi fare dentro di sé la mediazione in grado di essere colta e accettata dalla società, non esiste più.
La “ditta” si è infranta su questi scogli.
E se vogliamo evitare che il tentativo, ormai sempre più evidente, di archiviare definitivamente la democrazia rappresentativa (portata avanti a colpi di maglio prima con le polemiche sulla Casta, poi sul finanziamento pubblico ai partiti e ora sulle varie questioni morali) riesca, sarà bene concentrarsi di più su questi aspetti, anziché sui tatticismi di una legge elettorale alla quale non possiamo attribuire il compito di sganciarci da responsabilità che sono solo nostre, visto che ci chiamiamo democratici.
Enrico Borghi