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Europa al bivio: incontro pubblico ad Omegna

Mercedes Bresso
Mercedes Bresso

Europa al bivio: immigrazione, crisi ucraina e polveriera mediorientale.
E’ questo il titolo dell’incontro pubblico sul tema del ruolo dell”Europa al bivio tra protagonismo e subalternità.
Incontro che si svolgerà venerdì 22 maggio alle ore 21.oo, presso Villa Liberty (area Forum) ad Omegna.
Partecipa l’europarlamentare del PD Mercedes Bresso.
Organizza il circolo PD di Omegna/Cusio

Dopo l’Italicum, il Pd e la sinistra

Marco Travaglini
Marco Travaglini

Viviamo un periodo difficile per tutti, certamente di più per chi ha scelto di non votare la fiducia al governo sulla legge elettorale.
Non si tratta della “sinistra masochista”, espressione che lascia il tempo che trova e che qualifica ( non bene) chi l’ha pronunciata. Semmai si tratta di donne e uomini che  vogliono dare una mano per un coraggio maggiore nel fare leggi buone, dare un senso al cambiamento del paese e affrontare le tante emergenze davanti a noi. A cominciare dalla tragedia del Mediterraneo.
Persino l’Europa con il presidente della Commissione, Juncker, ha dichiarato che sospendere Mare Nostrum è stato un errore. Si potrebbe dire che è un riconoscimento tardivo e non restituirà la vita a qualche migliaio di donne e uomini disperati.
C’è il Mediterraneo, cimitero a cielo aperto, ma ci sono anche i problemi di milioni di famiglie che non reggono l’urto della crisi. I dati dell’economia reale non spingono all’ottimismo e questo rende ancora più urgente il varo di un provvedimento mirato contro la povertà e per una integrazione al reddito di chi è rimasto più solo e più indietro.
In questi giorni  c’è anche l’emergenza scuola con una riforma che va discussa e rivista in tante sue parti. Ma è chiaro che il voto sull’Italicum ha lasciato delle ferite ed è giusto tornarci sopra. La minoranza del Pd ha sempre detto che le riforme andavano fatte e nei tempi previsti.
Fino dal giorno successivo al “patto del Nazareno” si è sostenuto che era giusto cercare l’accordo con una parte almeno delle opposizioni (quella disponibile) e che però quell’accordo non poteva impedire al Parlamento di discutere e migliorare le riforme anche come garanzia di una condivisione larga delle scelte che si andavano a fare.
Purtroppo, e per mesi, la risposta è stata che nulla di quelle riforme (della Costituzione e della legge elettorale) si poteva cambiare senza un accordo preventivo con Berlusconi. Il risultato è stato che il Parlamento ha finito col ratificare, passo dopo passo, decisioni e scelte assunte altrove.
Questo fino alla rottura del patto con Forza Italia quando abbiamo pensato che fosse finalmente possibile trovare i contrappesi dovuti per una riforma destinata a cambiare la nostra forma di governo con uno slittamento del potere legislativo dal Parlamento all’Esecutivo. Invece, ancora una volta si è risposto che nulla si poteva modificare e che la legge elettorale andava approvata com’era.
Sino all’ultimo dalla minoranza è venuta una dimostrazione di lealtà, fino al punto di aver garantito il numero legale nell’Aula della Camera la notte in cui tutte le opposizioni hanno abbandonato i lavori sulla riforma costituzionale. In quelle ore la minoranza ha rispettato con rigore la disciplina del gruppo respingendo anche gli emendamenti che si condividevano.
Poi, nelle settimane successive, c’è stato chi, come Gianni Cuperlo e tanti altri, si sono sgolati nel provare a trovare il giusto equilibrio correggendo la riforma del Senato dal momento che ad oggi non siamo in presenza né di una vera Camera delle garanzie e neppure di una coerente Camera delle autonomie.
Modificando la riforma costituzionale, si sosteneva, era possibile compensare i limiti e le storture dell’Italicum (che a quel punto si sarebbe potuto votare senza modifiche come richiesto dal premier). Si sarebbe ottenuto in un colpo solo di migliorare le riforme, unire il Pd e allargare lo schieramento a favore della nuova Costituzione e della legge elettorale.
Si è fatta la scelta opposta: mettere la fiducia sull’Italicum nonostante lo strappo istituzionale che questa scelta comporta e approvare la nuova legge fondamentale della rappresentanza con i soli voti della maggioranza di governo, neppure a ranghi completi e con un dissenso dentro il Pd.
E’ legittimo continuare a chiedere il perché. Perché si è voluto questo sbrego della prassi? Perché si è scelto di ridurre il campo delle forze a sostegno delle riforme? Non siamo sempre stati noi (il Pd e Renzi per primo) a dire che le regole si scrivono assieme? Non aver partecipato al voto di fiducia è stata la risposta che in 38 deputati hanno dato a questo strappo. Sono pochi? Sono molti? Ciascuno può e deve giudicare, magari chiedendosi cosa avrebbe fatto al loro posto ( per quanto mi riguarda, avrei fatto esattamente come loro).
Poche certezze e molti dubbi sono legittimi, tanto più in un passaggio così complesso e carico di significato. Però tutti – anche la maggioranza che oggi guida il Pd – forse dovrebbero chiedersi cosa vuol dire la scelta di non partecipare al voto da parte di persone che appartengono a generazioni e storie diverse. Cosa significa votare contro le scelte, ritenute sbagliate, della propria parte.
Qual è lo strappo? Quello di chi reagisce a una decisione (la fiducia) ingiustificabile anche perché non c’era da parte delle opposizioni alcuna volontà di usare le armi dell’ostruzionismo? O quello di chi ha sottratto al Parlamento il diritto di discutere ed eventualmente emendare una legge che secondo molti conserva ancora gravi limiti? Alcune volte dire dei No costa più di un Sì. Ma è necessario, per non scadere nell’ipocrisia. E adesso? Si rimane nel Pd? Si guarda altrove?
La prima risposta, da parte dei più,  è che si resta nel Pd. Questo è il nostro partito e anche se oggi non è ciò che abbiamo pensato e che avremmo voluto. Dunque, in molti sceglieranno di continuare a battersi dentro. Ma anche quelli che hanno fatto o faranno la scelta di lasciare, meritano rispetto.
Per questo è giusto discutere su cosa rischiamo di diventare e su come correggere un profilo e uno stile che ci stanno allontanando da tante e tanti che non capiscono più il senso di una forza dove nessuno si agita se una parte degli iscritti e dei militanti se ne va e pochi si interrogano se alle primarie di Agrigento vince un esponente vicino a Forza Italia, se si fanno alleanze in Campania con personaggi dubbi per poi dire che sono “impresentabili”.
Avere diverse idee è una ricchezza e circondarsi di “fedeli” non è mai una buona scelta. Per questo molti sono ancora in campo. Al governo e al Pd la richiesta è non solo di “dire” ma di “fare” delle cose giuste: per i profughi in mare, i poveri senza rispetto, chi lavora senza diritti e chi un lavoro lo cerca senza garanzie. Si chiede al governo più coraggio sui diritti civili, per le donne e sulla qualità della democrazia.
E’ difficile, molto difficile ma, per chi se la sente, è ancora possibile ( necessario lo è sempre stato) lavorare per tutto questo sapendo che un Pd dove la sinistra, i suoi valori e principi, non sia di casa, semplicemente non sarebbe più il Pd.

Marco Travaglini

Y: La città dei laghi e le politiche urbanistiche europee

verbaniaContinua la rassegna di incontri legata alla campagna del circolo PD “A Verbania facciamo il punto. Anzi 6”
Il tema della prossima serata, lunedì 18 maggio alle ore 20.45 (presso la Società Operaia di Intra – Via De Bonis 36), sarà l’urbanistica come strumento per il rilancio del “fronte lago”.
Analisi di politiche urbanistiche europee calate nel nostro territorio, progettate su una visione intercomunale. Un’intera città, a forma di Y, dal Verbano al Cusio: la Città dei laghi.
Interverranno:
– Prof. Giuseppe Grieco, ex vicesindaco di Verbania e membro segreteria PD.
– Ing.re Stefano Rondo, esperto di progettazione sostenibile e smart city.
– Ing.re Pietro Agnelli, responsabile di un progetto di rigenerazione urbana nel quartiere di Lambrate.
Modererà la serata il capogruppo PD Verbania Davide Lo Duca. Durante la serata interverranno il Sindaco Silvia Marchionini e il segretario del PD Riccardo Brezza.
Vi aspettiamo lunedì 18 maggio alle 20.45 presso la Società Operaia di Verbania-Intra in Via De Bonis 36.

Il “secolo breve” e il centenario della Prima guerra mondiale

sarajevo biblioteca lapide guerraIl centenario della Prima guerra mondiale ( che ,per noi italiani, coincide con il 24 maggio del 1915, quasi un anno dopo lo scoppio del conflitto ) è un’occasione per guardare al Novecento, il secolo che ha prodotto un numero di morti in guerra tre volte superiore a quello complessivo delle vittime di tutti i conflitti combattuti nei diciannove secoli che ci separano dall’inizio dell’era cristiana. Basterebbe scorrere le cifre della prima guerra mondiale per comprendere come il “secolo breve” si presenta con un salto di qualità nell’esercizio della guerra: quasi dieci milioni di soldati mandati al massacro, ventuno milioni i feriti.
Fra le popolazioni civili quasi un milione di persone morirono direttamente a causa delle operazioni militari e circa sei milioni furono le vittime per quelli che oggi verrebbero definiti “effetti collaterali”, ovvero carestie e carenze di generi alimentari, malattie ed epidemie, nonché per le persecuzioni razziali scatenatesi durante la guerra. Numeri impressionanti che la retorica ha sempre cercato di esorcizzare o di nascondere,  in nome dei esasperati patriottismi e di quei  “sacri confini” che un secolo dopo sono praticamente scomparsi, spazzati via dalla storia.
E’ incontestabile che il Novecento sia stato “il secolo più cruento della storia”. Se non si riflette su questo, se non s’impara dalla storia, il passato non passa. Che cosa abbiamo (noi,tutti)  compreso delle tragedie del Novecento, del significato delle parole che campeggiavano all’ingresso di Auschwitz, dei sistemi concentrazionari che con la Shoah o l’Arcipelago Gulag hanno segnato il secolo scorso? E cosa ne pensiamo del loro riapparire sul finire del secolo con “la guerra dei dieci anni” nel cuore dell’Europa, in quei Balcani che secondo Winston Churchill  “contengono più storia di quanta ne possano consumare”?
Tutti noi sappiamo dov’eravamo l’11 settembre 2001, quando arrivò la notizia dell’assalto alle Torri gemelle. Pochissimi ricordano dov’erano l’11 luglio 1995, quando cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo. Fu il triplo dei morti rispetto a New York, ma quasi nessuno se ne accorse.
Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. “ Srebrenica, che roba era? Un buco tra le montagne dal nome impronunciabile – scrive Paolo Rumiz -; l’Europa era al mare, la Bosnia non faceva notizia, la guerra stava finendo. E poi, a che pro sapere? Eravamo complici. L’Europa, le Nazioni Unite, la Nato. Avevamo lasciato che il massacro avvenisse”. Sono passati vent’anni. Ora,sappiamo. Ma si tende a rimuovere,a  dimenticare. Per questo il centenario della prima guerra mondiale è un’occasione da non sprecare per interrogarsi, riflettere, imparare. Ponendoci le domande giuste.
Ad esempio, perché il Novecento nasce e muore a Sarajevo? Porre l’attenzione su questa domanda è fondamentale per comprendere almeno in parte quel che è accaduto negli anni ’90 ma anche nel decennio successivo intorno al contraddittorio concetto di “scontro di civiltà”. Sarajevo è, se sappiamo vedere, il cuore dell’Europa e più precisamente il punto d’incontro fra oriente e occidente nel cuore dell’Europa.
Per meglio comprendere il ruolo che nella storia bisognerebbe scavare molto indietro di quel fatidico 28 giugno 1914 quando nelle strade di Sarajevo un gruppo di giovani irredentisti decise di attentare alla vita dell’erede al trono del secondo impero d’Europa. Ma è sufficiente immaginare cosa accadde quasi ottant’anni dopo, dopo due guerre mondiali.
In quei giorni dell’assedio più lungo della storia moderna, a Sarajevo  non bruciava solo la Viječnica, la vecchia biblioteca: andava in fumo anche un’idea di Europa come incontro fra oriente e occidente. Mentre bruciava l’Europa noi volgevamo lo sguardo altrove.
Da questa parte del mare, guardavamo distrattamente la tragedia che si consumava in quella città, senza capire che ad essere assediata era la storia, la cultura, un’idea dell’Europa. Eravamo noi. Del resto era proprio questo l’obiettivo degli assedianti. Le granate, le bombe incendiarie, non cadevano a caso ma miravano i simboli. Le guerre moderne non hanno come obiettivo la distruzione dell’esercito nemico, con il quale spesso ci si intende e si fanno affari, ma contro la popolazione civile, la storia, la cultura, le città. Con l’assedio di Sarajevo si parlò di “urbicidio”: la volontà non era di prendere una città della quale non sapevano che farsene, ma di tenerla sotto scacco di fronte al mondo intero per sfiancarne la resistenza ed il messaggio.
Così le biblioteche sono diventate obiettivi strategici perché, come i libri, gli edifici, le opere d’arte ci parlano della complessità, degli intrecci, dell’Europa come insieme di minoranze. Ecco cosa rappresentava Sarajevo! Un corpo estraneo al nazionalismo, alle identità urlate e usate come armi! Un corpo da offendere, colpire, estirpare per gli ultranazionalisti che hanno teorizzato la purezza, segnando nel sangue il Novecento. Vedere riapparire sul finire del Novecento i campi di concentramento e il concetto stesso di “scontro di civiltà” riempie di inquietudine. E anche oggi sembra di star seduti su di un barile di polvere da sparo, pronto ad esplodere fragorosamente.
Tutto ciò induce a pensare che se non siamo capaci di interrogarci sulla storia, questa verrà usata come una clava per sostenere che, in un mondo abitato a breve da nove miliardi di persone, lo spazio vitale sarà solo di qualcuno. Secondo il diritto naturale, dei più forti.

Marco Travaglini

Dieci milioni per l’edilizia scolastica del VCO

scuolaliceoomegnaOttime notizie per le scuole del territorio, sono in arrivo finanziamenti importanti, erogati direttamente dallo Stato, per interventi che riguardano gli edifici scolastici.
In tutto stiamo parlando di 10, 5 milioni di euro che saranno spesi nei prossimi tre anni per l’ammodernamento delle scuole dell’area montana del Vco, in particolare a:
Druogno (313.641,64); Baveno (800.000); Anzola Ossola (232.118,05); Pieve Vergonte (800.000); Vogogna (233.560,45); Villette (41.517,35); Domodossola (2.399.499); Cesara (160.525); Montecrestese (420.000); Beura Cardezza (66.424,24); Crevoladossola (671.560); Masera (240.000); Ornavasso (52.390,78); Cambiasca (104.800), Verbania (29.204,29).
Tutti gli interventi citati sono i più urgenti che riguardano quindi il 2015, annualità che ha quindi un importo complessivo di 6.565.242,11 euro.
Ma il piano triennale prevede finanziamenti anche per il 2016 e il 2017, come di seguito elencati: Baceno (800.000); Calasca Castiglione (31.294,21); Villadossola (46.696,42), Verbania (350.000); Omegna (per il tramite della Provincia, 800.000); Domodossola (per il tramite della Provincia, 800.000); Verbania (per il tramite della Provincia, 800.00); Arizzano (281.990).
Per un totale complessivo di interventi sul territorio del VCO di 10.475.233 € su 202.297.231,71 attribuiti alla Regione Piemonte: “I fondi stanziati dal Governo italiano, e assegnati ai comuni dalla Regione Piemonte, sono una risposta concreta alle esigenze del territorio, e arrivano in un periodo difficile per la nostra economia e per la scuola .– commenta Enrico Borghi, capogruppo del Partito Democratico in Commissione Ambiente, Lavori Pubblici e Territorio della Camera – si tratta di finanziamenti fondamentali per garantire una scuola più efficiente e sicura, senza dimenticare che saranno anche un volano per il rilancio dell’economia territoriale. Mi preme anche sottolineare che questo tipo di finanziamento non andrà a rincarare il rischio di sforamento del patto di stabilità, una richiesta più volte avanzata dai sindaci e su cui il governo ha posto particolare attenzione.
Troppo spesso gli edifici scolastici sono alla ribalta della cronaca per avvenimenti gravi come crolli strutturali o mancanza dei servizi base – ha continuato Borghi– con questo intervento del governo invece, le scuole potranno essere ammodernate ed efficientate. In questo processo di miglioramento non è stata esclusa l’area montana del Vco, che invece entra in graduatoria con una folta presenza di Comuni e con una percentuale sull’intero Piemonte superiore rispetto al rapporto tradizionale sulla popolazione. Segno evidente che questo finanziamento era un’esigenza non più prescindibile per le scuole del nostro territorio. Continua quindi a dimostrarsi in modo concreto l’impegno del governo nel campo dell’edilizia scolastica, un impegno iniziato fin dai primi mesi della legislatura e destinato a continuare anche nei prossimi anni con rinnovato vigore, anche grazie al lavoro di coordinamento e di istruttoria da parte della Regione Piemonte, che per il tramite del vicepresidente Aldo Reschigna intendo ringraziare”.

Il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze di concerto con il Ministro dell’istruzione dell’università e della ricerca e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, varato su iniziativa legislativa del Parlamento, stabilisce che le Regioni interessate possano essere autorizzate a stipulare appositi mutui di durata trentennale con oneri di ammortamento a totale carico dello Stato (purchè fatti con la Banca europea per gli investimenti, con la Banca di sviluppo del Consiglio d’Europa o con la società Cassa depositi e prestiti) e senza che le somme finanziate vadano a incidere sullo sforamento del patto di stabilità. Gli interventi riguarderanno lavori straordinari di ristrutturazione, miglioramento, messa in sicurezza, adeguamento sismico, efficientamento energetico di immobili di proprietà pubblica adibiti all’istruzione scolastica, nonché la costruzione di nuovi edifici scolastici pubblici e la realizzazione di palestre scolastiche nelle scuole o di interventi volti al miglioramento delle palestre scolastiche esistenti. Insomma, tutti interventi urgentissimi che in molti casi non possono più essere rimandati. Il tutto è inserito nel Piano Triennale e Annuale del fabbisogno 2015-2017 appena approvati in Regione Piemonte.

Il cittadino come arbitro: ecco perché’ voto la riforma elettorale

On. Enrico Borghi
On. Enrico Borghi

Contributo dell’onorevole Enrico Borghi.
Alla vigilia dell’approvazione della nuova legge elettorale si sono moltiplicate le preoccupazioni nei confronti di una riforma che, combinata con la riforma costituzionale che trasforma il Senato, viene presentata come un rischio potenziale per la democrazia nel nostro Paese. E questo espediente retorico viene sollevato per giustificare il voto contrario, anche da settori importanti del Partito Democratico.

A mio giudizio, ed è’ il principale motivo per il quale esprimerò voto favorevole alla riforma (oltre che per il rispetto ad una comunità politica che ha deliberato tale decisione dopo mesi di discussioni) il cardine della riforma va invece in direzione opposta. La sua base fondamentale, infatti, sta nella volontà di attribuire al voto del cittadino il potere non solo di scegliere il partito e i suoi rappresentanti in Parlamento, ma anche il potere di indirizzo politico al futuro governo, conferendo alla scelta del cittadino – qualora condivisa dalla maggior parte dell’elettorato – la forza parlamentare sufficiente a sostenere un esecutivo solido e stabile.

Non si è’ ragionato a sufficienza, in questi giorni, sul problema cronico del sistema politico italiano: la instabilità dei suoi governi. Non vi è altro Paese nell’Unione Europea che abbia conosciuto nella sua storia democratica un tale frenetico avvicendarsi (63 governi nei 70 anni dal 1945 al 2015). Tale cronica debolezza non incide solo sulla forza del potere esecutivo, ma più profondamente sul potere del cittadino o, nel suo insieme, sul potere del popolo di imprimere alla politica un indirizzo, una “direzione”.

Pensare di dare stabilità al governo affidando ai partiti il compito di comporre delle alleanze in Parlamento è un errore storico: per decenni in Italia abbiamo affidato ai partiti (e partiti assai più stabili e strutturati di quelli attuali) questo compito e il risultato è quello che abbiamo ricordato, ossia una perenne instabilità.

Nella Prima Repubblica i partiti svolgevano una funzione “trascendente” rispetto alle istituzioni, perché era in essi che si compivano tutti i processi, sia quelli decisionali che di selezione della classe dirigente. Oggi questa funzione non e’ più riconosciuta, perché i partiti non hanno più la sussunzione nel proprio interno di pezzi di società. E tutto va quindi, in diretta, dentro le istituzioni . Perché, dunque sottrarre ai cittadini questo potere in una prospettiva che si vuole “democratica”, per rimanere confinati -per dirla alla Scoppola- dentro il perimetro di una “Repubblica dei partiti” che non c’è’ più ?

Nel solco dell’Ulivo (e di Ruffilli)

Questa domanda non è di oggi, ne’ inedita. All’inizio degli anni ’80, in corrispondenza con una forte crisi dei partiti, si ritenne che per rafforzare il potere del cittadino di dare al proprio governo un “indirizzo” politico con il proprio voto vi fossero solo due strade: la strada presidenzialista/semipresidenzialista e la strada di un rafforzamento del premierato entro la forma di una democrazia parlamentare.

Si ritenne allora – e in molti lo ritengono anche adesso – che la prima strada in Italia potesse essere soggetta a qualche rischio: in un Paese fortemente diviso, e democraticamente giovane, era opportuno che accanto a un governo espressione di una “parte” continuasse ad esservi una figura “terza” come il Presidente della Repubblica, capace di rappresentare l’unità nazionale e di svolgere nel caso di crisi – peraltro, come si è detto, continue – il ruolo di garante della Costituzione.

Dunque il rafforzamento del premierato, come alcuni sostengono, non rappresenta affatto lo scivolamento verso una deriva presidenzialistica, ma il suo contrario: l’alternativa al presidenzialismo dentro il permanere della forma parlamentare.Tertium non datur. Perché oggi, nell’età dell’integrazione europea, voler perpetuare la debolezza del governo – che deve esercitare un fondamentale potere “legislativo” a livello dell’Unione – non significa rafforzare il potere del popolo, ma significa spogliare il popolo del suo potere di governo. E non solo a livello nazionale, ma ancor di più a livello sovranazionale, dove si prendono le decisioni più rilevanti.

Per questo, trent’anni fa nella Commissione Bozzi, una serie di politici e intellettuali (Pasquino, Barbera, Scoppola, Andreatta, De Mita, Ruffilli e altri) trovarono una significativa convergenza sulla necessità di rafforzare il potere del premier agendo sulla legge elettorale e correggendo il sistema proporzionale in senso maggioritario in modo da consentire al cittadino – e non alle trattative tra i partiti – di determinare l’indirizzo politico conferendo al governo una solida maggioranza parlamentare. Si parlò allora di “restituire lo scettro al Principe” (Pasquino) o di trattare il “cittadino come arbitro” (Ruffilli). L’idea di un premio di maggioranza da attribuire a chi supera il 40% o a chi vince un ballottaggio nasce in quell’orizzonte per contrastare la proposta presidenzialista, in un’epoca in cui la personalizzazione della politica era di là da venire.

L’evoluzione del sistema politico italiano negli anni Novanta, ivi compresa la legge Mattarella, va in questa stessa direzione. E così la tesi 1 dell’Ulivo sul “Governo del Primo Ministro”. Si ritiene cioè fondamentale conferire al cittadino la possibilità di scegliere il proprio governo: da questo momento in poi le competizioni elettorali si svolgono tra parti politiche guidate da leader che incarnano schieramenti alternativi e che chiedono agli elettori il consenso. Berlusconi, Prodi, Rutelli, Veltroni, Bersani – sia con il Matterellum, che con il Porcellum – stanno dentro tutti questo schema che nessuno nel centrosinistra si è mai sognato di mettere in discussione.

Al contrario ci si è sempre preoccupati delle debolezze o delle falle della legge elettorale che, agendo su due Camere diverse,finiva per funzionare male e quindi per produrre maggioranze diverse.

Per questo vi è sempre stata una generale concordia sulla necessità di dare coerenza al sistema elettorale senza tornare indietro di 35 anni quando i partiti si presentavano agli elettori con le mani libere e formavano il governo attraverso complicate trattative dopo il voto. In questa prospettiva togliere al Senato il potere di fiducia e dare coerenza al sistema elettorale era un obiettivo da tutti condiviso all’inizio della legislatura.

Parlamento centrale, ma quale autoritarismo?

Oggi, invece, si fanno più insistenti le critiche di chi vede nel progetto di riforma una deriva presidenzialista o addirittura autoritaria. Ma nel modello proposto non vi è una dipendenza diretta del governo dal voto popolare: rimane in capo al Presidente della Repubblica il potere di conferire l’incarico e al Parlamento il potere di votare o meno la fiducia. Cosa che in caso di crisi consente, come è regolarmente avvenuto, di avere governi che si formano in Parlamento senza passare dal voto, là dove la situazione economica o altre circostanze sconsiglino il ricorso alle urne. Sostenere che con le modifiche della Costituzione e della legge elettorale si passerebbe ad un’altra forma di governo vuol dire non aver letto le carte oppure voler mantenere il nostro Paese in una forma del tutto anomala di democrazia parlamentare che in un sistema sempre più integrato a livello europeo (e noi siamo per una ancora maggiore integrazione europea) condannerebbe non il nostro Governo, ma l’intero nostro Paese a contare poco o nulla, come appunto è avvenuto tante volte in passato.

Con la riforma i poteri del Parlamento rimangono intatti. Qualsiasi sia l’esito delle elezioni, il Parlamento rimane sovrano e può far cadere il Governo tutte le volte che vuole, senza essere costretto a dare vita a un nuovo Governo con un meccanismo di sfiducia costruttiva o senza essere costretto a sciogliere se stesso. Altro che strapotere del Governo sul Parlamento! Quanto poi allo spostamento del potere legislativo dal Parlamento al Governo che sarebbe l’inevitabile conseguenza di questa riforma, si guardino i dati: nella XV legislatura (2006-2008) sotto il governo Prodi solo il 10% dei provvedimenti legislativi sono il frutto di iniziativa parlamentare, mentre nella XVI legislatura (2008-2013) sotto i governi Berlusconi e Monti la percentuale sale al 22%. Si tratta dunque di un fenomeno ben più risalente e di dimensione europea, che peraltro ha come sua spiegazione proprio la forma della democrazia parlamentare nella quale il Governo non è l’alter ego del Parlamento (come invece nel Presidenzialismo americano) ma il braccio esecutivo della sua maggioranza. Si tratta piuttosto di riconoscere e valorizzare l’apporto che il Parlamento dà ai provvedimenti anche varati dal Governo attraverso il lavoro delle Commissioni e dell’Aula, quando non vengono messe in atto manovre ostruzionistiche, favorite da un regolamento consociativo da superare. E ancora di potenziare il potere di indirizzo: soprattutto quando il Parlamento deve determinare l’operato del Governo in sede europea (indirizzo oggi affidato ageneriche mozioni). E poi di potenziare il potere di controllo anche attraverso un adeguato riconoscimento del ruolo dell’opposizione , che oggi, finalmente, trova spazio nella riforma costituzionale.

E, in ogni caso, più che il problema del premio alla lista o alla coalizione, il tema pare quello del trasformismo parlamentare: se non si cambiano i regolamenti parlamentari, dopo le elezioni sarà sempre possibile e magari anche conveniente uscire dal gruppo sotto il cui simbolo si è stati eletti e dare vita a un altro gruppo. Se la maggioranza parlamentare ha 340 deputati e il quorum alla Camera è 316, basta un gruppo di 30 deputati per mettere sotto il governo !

Il nodo e’ l’articolo 49 della Costituzione

Non servono solo buone regole, insomma; servono buoni soggetti e dunque il problema è quello dei partiti. Occorre fare ogni sforzo per avere dei partiti democratici, trasparenti, plurali ma coesi, non luoghi di incursione di gruppi,lobbies o peggio. In questo quadro va collocata l’ultima questione,quella delle preferenze. Naturalmente il tema è la libertà di scelta dell’elettore dei propri rappresentanti. Bisogna però riconoscere che tale tema non può che declinarsi attraverso la mediazione di partiti o gruppi organizzati. Nessun cittadino in nessun sistema elettorale può votare chi gli pare. Si vota sempre un nominativo proposto da un partito o da un insieme di cittadini. Dunque i partiti – o loro analoghi – hanno il compito comunque di selezionare una possibile classe dirigente, di selezionare 1, 2, 5 o 30 nomi da sottoporre al vaglio degli elettori. Anche con le preferenze esiste un potere del partito di escludere qualcuno da una lista o di metterlo capolista o di favorirlo mandandolo in televisione o sostenendolo in altro modo. Non ci giriamo attorno. La responsabilità della selezione non si può scaricare sugli elettori: sono i partiti a fare la proposta e spesso a orientare il voto.

E qui sta certamente la debolezza del sistema Italia. Una debolezza complessiva non solo dei partiti. Siamo in una stagione in cui il nostro Paese è in affanno: non riusciamo a trovare un sistema sensato di selezione della classe dirigente: insegnanti, studenti, dirigenti scolastici, primari di medicina, professori universitari, manager pubblici. Insomma, in ogni settore pubblico in cui si tratta di operare delle selezioni continuiamo a cambiare i meccanismi, ricorriamo tutti al Tar, riempiamo le pagine dei giornali di ogni possibile scandalo. Insomma odiamo la classe dirigente. Odiamo il fatto che ve ne sia una. E quindi non ci importa selezionarla. Ci basta distruggerla o renderla impotente. Sarebbe simpatico come meccanismo se non avesse in alcuni settori (scuola, università, pubblica amministrazione e sanità ad esempio) effetti devastanti sulla vita del cittadino. Nel caso della classe politica forse è meno grave, ma dato che siamo in un sistema integrato europeo, la debolezza della nostra classe dirigente in quella sede ha anch’essa effetti negativi.

Dunque a qualsiasi sistema si ricorra, i partiti devono riprendersi la capacità e la responsabilità di proporre una classe dirigente degna di questo nome. Il Pd si è inventato le primarie e certo sono uno strumento formidabile. Non esente però da possibilità di inquinamento e comunque da sé non sufficiente a garantire una scelta che privilegi, almeno in parte, le competenze. In questo senso l’ipotesi di avere un mix di parlamentari scelti dal partito e di parlamentari scelti dagli elettori non sarà la migliore del mondo, ma ha un senso in linea di principio. Se poi nella realtà i partiti la vorranno usare per il meglio o invece come luogo di spartizione tra le tribù di fedeli all’uno o all’altro capo, è un’altra faccenda. Dopo la riforma costituzionale e la riforma elettorale, bisognerà finalmente dare corpo alla riforma dei partiti e imboccare con decisione l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per dire come si fa oggi a declinare in maniera moderna in principio con il quale un partito e’ il modo per concorrere in forma democratica alla vita politica di una nazione. E anche su questo piano, speriamo che una più forte integrazione europea ci aiuti.