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Srebrenica 20 anni dopo: film evento alla Casa della Resistenza

srebenica massacroVenerdì 11 Settembre, alle ore 21, presso la  Casa della Resistenza di Fondotoce-Verbania – con una iniziativa congiunta tra l’Associazione “Casa della Resistenza” e  il Comitato Resistenza e Costituzione – verrà ricordato il ventennale del genocidio di Srebrenica con una serata-evento di straordinaria importanza.  Verrà proiettato infatti  il film “Resolution 819” , in lingua italiana ( il film non si trova in commercio) con la presenza del regista Giacomo Battiato. Nell’occasione verrà altresì inaugurata la mostra fotografica “Balcani oltre il confine” di Paolo Siccardi.
Parteciperà anche il Vice Presidente del Consiglio regionale del Piemonte, Nino Boeti.

BORGHI: SENTENZA TAR TOSCANA SU POSTE ESEMPLARE PER I TERRITORI PERIFERICI

ufficio-postaleEsprime soddisfazione il Deputato del Partito Democratico On. Enrico Borghi, Presidente dell’Intergruppo parlamentare per lo Sviluppo della Montagna,  per la decisione del TAR della Toscana di congelare la chiusura di 59 uffici postali in merito alla nota vicenda dell’applicazione del piano di razionalizzazione di Poste Italiane nei piccoli paesi di Montagna.

Una pronuncia importante che segue e conferma quella del TAR del Friuli Venezia Giulia dello scorso 15 Luglio, aprendo un nuovo e deciso scenario più favorevole ai piccoli comuni di montagna.

Dalla lettura della sentenza, infatti, emerge con estrema chiarezza come i giudici abbiano affermato che l’esigenza di risparmiare può essere un fattore di valutazione da parte di Poste Italiane ma non può prevalere sull’interesse pubblico allo svolgimento del servizio universale.

Per questi motivi, sempre nella sentenza si legge come debba tenersi in seria e doverosa considerazione la situazione geografica e orografica dei singoli territori interessati dal piano di razionalizzazione nonchè le proposte che dai comuni interessati dovessero giungere.

“Le due sentenze sono di assoluto rilievo – commenta il parlamentare del Partito Democratico – perché danno una veste giuridica ai temi sollevati dall’intergruppo parlamentare per lo sviluppo della montagna nelle scorse settimane, in occasione dell’avviata privatizzazione di Poste Italiane Spa cui non è seguita ancora una liberalizzazione del mercato per assicurare, in ogni caso, la prestazione del servizio.”

“Vi sono alcuni passaggi, in queste ordinanze del TAR, di assoluto rilievo” – continua Borghi –“ Anzitutto si sancisce il servizio postale e’ un servizio di interesse pubblico, ancorché gestito da soggetto privato, in quanto oggetto di concessione di pubblico servizio alla quale, aggiungo, è legato anche un contributo specifico della legge di stabilità. E si riconferma la natura giuridica del Comune quale espressione di una collettività che ha evidente interesse ad avere parità di trattamento per i propri cittadini. Ma vi è’ un altro importantissimo passaggio, in queste sentenze. E cioè che l’aspetto economico non può essere considerato ne’ esclusivo ne’ prevalente nell’interesse pubblico allo svolgimento corretto di un servizio universale come va considerato il servizio postale. Partendo da qui, il giudice amministrativo riconosce implicitamente il diritto dei territori montani sancito dall’articolo 44 della Costituzione, laddove richiama il fatto che il dato economico ovvero quello della distanza non può essere superato né come assoluto né come di automatica applicazione, ma deve essere rapportato alla situazione geografica e orografica di alcune zone, anche per raggiungere un equilibrio e un bilanciamento tra gli interessi degli utenti e quelli dell’azienda.”

“Indubbiamente questi due precedenti sono di assoluta importanza anche per tutti quei territori marginali interessati dal piano di riorganizzazione di Poste – conclude il parlamentare ossolano – penso ad esempio alla Provincia del Verbano Cusio Ossola, e a tutti quegli uffici postali che saranno interessati da queste misure, suggerisco ai sindaci di promuovere un analogo ricorso al tribunale amministrativo regionale sulla scorta delle due esperienze del Friuli e della Toscana. Sarò a loro disposizione in questo importante percorso. Dopo questo secondo intervento della giustizia amministrativa, mi chiedo se i vertici di Poste Italiane spa -a cominciare dalla presidente Todini- abbiano finalmente compreso che la riorganizzazione di un’azienda che svolge servizio pubblico si fa confrontandosi coi territori, applicando le indicazioni del Parlamento e rispettando le leggi. E in ogni caso i giudici amministrativi chiariscono che il servizio postale va assicurato, a prescindere dalla natura giuridica del soggetto titolato: motivo in più per aprire ad una liberalizzazione del settore e a utilizzare con procedure ad evidenza pubblica i fondi pubblici destinati al servizio universale

Una nuova sinistra, una nuova Europa

bandiera germania grecia europaDalla vicenda greca ad uscirne male, umiliata e ferita è l’idea stessa d’Europa.
La Grecia resta nell`euro, ma è sotto gli occhi di tutti la crisi di una unione monetaria ( e per nulla politica) incapace di ridurre gli enormi gap di competitività al suo interno. Sono emerse tutte le ipocrisie di una integrazione dominata dagli interessi nazionali, dalla speculazione e da un dramma umanitario con pochi precedenti in tempo di pace.
La Germania ha di fatto imposto delle condizioni per la Grecia che, come sottolinea l’economista francese Fitoussi, “significano ancora sofferenza per il popolo greco”. In particolare per quanto riguarda le privatizzazioni che dovranno essere decise perché è noto che la vendita di beni pubblici in un contesto economico come quello attuale della Grecia si avvicina ad una svendita. E nessuno può dire di non vedere che questo è il momento meno opportuno per fare un’operazione di questo tipo.
A questo accordo, approvato con sofferenza, si è arrivati essenzialmente per la posizione della Germania e degli altri paesi del nord e dell’est che hanno fatto di tutto per umiliare la Grecia e un’idea diversa dell’Europa, opposta all’agenda dell’austerità che ha prodotto danni gravissimi e un vero e proprio disastro sociale per le classi meno abbienti.
Come sostenne l’allora ministro delle Finanze di Atene Yanis Varoufakis, Angela Merkel poteva fare un gesto sullo stile del “Discorso della speranza’” che il 6 settembre 1946 pronunciò a Stoccarda il segretario di Stato Usa James F. Byrnes, per dare la possibilità alla Germania “di immaginare il recupero, la crescita e un ritorno alla normalità” dopo la seconda guerra mondiale.
Quel discorso fu la chiave della ripresa economica tedesca, “facilitata dal piano Marshall, il condono del debito nel 1953 patrocinato dagli Usa e dall’arrivo di lavoratori immigrati da Italia, Jugoslavia e Grecia”. Sette decenni dopo era la Grecia, ad aver bisogno di una simile possibilità e poteva essere l’occasione per suggerire un nuovo approccio all’integrazione europea.
Ma la generosità della Germania non si è vista. Bravi a cogliere quella degli altri ma non a restituirla, dimostrando che l’avidità dei creditori è senza memoria.
La più grande delusione riguarda però il socialismo europeo. Afono e privo di leadership all`altezza. Hollande ha avuto almeno il merito di provarci. Ma il Pse, questo Pse andrebbe rifondato. Così com`è assomiglia ad una burocrazia senz`anima, mentre fuori dal suo perimetro cresce una sinistra antiausterità, portatrice di una voglia di cambiamento che sarebbe una sciagura non vedere, ascoltare, coinvolgere.
Bisogna affrontare i nodi di fondo della crisi europea: parametri ottusi, carenza di investimenti, debiti e interessi che strangolano la crescita. Bisogna risvegliare il sogno degli Stati Uniti d’Europa, ma occorre ciò che sino ad ora è mancato: forza e capacità. La sinistra socialista sarà capace di allargare il campo? Serve una svolta storica nel modo di concepire integrazione, economia, civiltà. Se si riduce l`Europa alla sola moneta, quella diventa un`ideologia, per di più pericolosa.
La sinistra è all’altezza di questa sfida? Se non lo sarà il vuoto verrà riempito sempre di più dai rapporti di forza dettati dalla Cancelliera tedesca e dal suo ministro delle finanze. Tutta la retorica sull’integrazione politica si è arenata davanti alla prima vera crisi dell’Eurozona e dell’architettura di Maastricht. In questo la sinistra greca ha reso evidente che chiunque tocca i dogmi dell’austerità viene vissuto come un corpo estraneo e da piegare. Quello consumato a Bruxelles è stato un braccio di ferro tutto politico e in questo senso illuminante, come ha raccontato bene Varoufakis. Se non si pone riparo, se non si alza la testa dalla piccola contabilità del quotidiano, si rischia di finir male.
E alla parabola greca si aggiunge il rifiuto nordico a redistribuire una quota di migranti e profughi, mentre alcuni alzano – e non metaforicamente- dei muri come in Ungheria.
E’ qui che l’Europa della retorica frana: nel venir meno, tanto sul piano monetario che umanitario, di quei trasferimenti solidali e illuminati senza i quali prevale l’egoismo. Da qui una nuova sinistra deve ripartire se non vogliamo assistere al trionfo di nuovi “muri”, fisici e morali.
Marco Travaglini

LA GIUNTA REGIONALE APPROVA IL DDL RIORDINO DELLE PROVINCE

La Giunta regionale ha approvato il disegno di legge di riordino delle Province.Provincia Verbano Cusio Ossola Stemma
Il testo arriva dopo un lungo confronto con le organizzazioni sindacali e l’Osservatorio sugli enti locali, “che hanno entrambi espresso apprezzamento per il lavoro svolto”, ricorda il vicepresidente della Regione Aldo Reschigna.
“Il disegno di legge regionale non fa riferimento solo alla Del Rio, ma anche alla riforma del titolo V della Costituzione, in discussione in Parlamento, di cui anticipa i soggetti di area vasta; stiamo di fatto operando una riorganizzazione complessiva della amministrazione
pubblica in Piemonte”, ha commentato Reschigna.
Le Province piemontesi sono state infatti accorpate in tre quadranti, uno che comprende il cuneese, l’altro l’astigiano e l’alessandrino, il terzo le restanti Province del nord Piemonte, che gestiranno le funzioni delegate dalla Regione in convenzione tra di loro, all’interno delle tre aree vaste che, insieme con la Città metropolitana, costituiscono lo scenario di fondo entro cui si colloca il disegno di legge.
Il provvedimento riconosce anche il ruolo forte della Città metropolitana, lasciandole la delega alla formazione professionale, delega che nel caso delle altre Province torna in capo alla Regione. “Se il ruolo della Città metropolitana è anche quello rigovernare i
sistemi economici, la formazione professionale è uno strumento importante per quel governo”, sottolinea Reschigna. Il ddl assegna alla Città metropolitana anche il ruolo di soggetto gestore delle zone di protezione speciale e dei SIC.
Oltre alla formazione professionale, torna in capo alla Regione anche la delega sull’agricoltura, come per altro richiesto anche dalle organizzazioni di settore, “per evitare la frammentazione e agevolare la gestione del nuovo Psr”, aggiunge il vicepresidente.
La specificità montana viene riconosciuta nel provvedimento al VCO, che vede sostanziare così il titolo di Provincia Montana che divide con le Province di Sondrio e Belluno per le caratteristiche del territorio e l’essere confinante con un altro paese.
Le deleghe che derivano da questo titolo sono quelle sulla forestazione, gli usi civici, l’energia su biomasse e le attività estrattive. “Il VCO parteciperà anche alla programmazione regionale della formazione professionale per la sua natura transfrontaliera e la necessità di formare il personale che lavora nel Canton Ticino e nel Canton Vallese, attualmente 6500 cittadini della Provincia”, ha spiegato Reschigna. Verranno gestite invece in convenzione con le altre Province dell’area vasta le altre funzioni decentrate dalla Regione.
Restano aperte due questioni, che attendono la conversione in legge del DL sugli enti locali per poter essere definite: Il futuro dei centri per l’impiego e la polizia provinciale.
Saranno chiariti nella discussione in Consiglio regionale.
Un capitolo importante riguarda il personale, che passerà alla Regione in ruolo separato, come prevede la legge Del Rio, per poter essere messo a disposizione con convenzione alle Province e alla Città metropolitana.
Al momento dell’entrata in vigore della legge Del Rio lavoravano per le Province piemontesi 4150 dipendenti, con un costo di 162 milioni di euro.
Attraverso la mobilità agli altri enti locali e la dichiarazione di eccedenza, da risolvere con il pensionamento con le norme pre-Fornero, la previsione è di arrivare a 3819 dipendenti entro il 2016, per un costo di 146 milioni.
“Occorre però rilanciare la mobilità e l’utilizzo della pre-Fornero”, sostiene Reschigna, “Se non si vuole che i costi del personale sottraggano troppe risorse alle politiche sia in Regione, sia nelle Province e nella Città metropolitana. E’ possibile ipotizzare che con
questi strumenti si possa arrivare a 3500 dipendenti, in modo da non incidere troppo sui costi.”
Le intese con le singole Province per i contingenti numerici saranno assunti entro settembre. Il rientro in Regione di circa 1300 dipendenti (289 solo in agricoltura) inciderà profondamente sulla organizzazione dell’ente.
Per quanto riguarda le risorse, per il 2015 la Regione metterà a disposizione delle Province 51 milioni di euro, in linea con i livelli delle Giunte Ghigo e Bresso, “progressivamente calate, fino ad arrivare ai 9 milioni iscritti a bilancio nel 2014 dalla Giunta Cota, e da noi portati con l’assestamento a 25. Lo sforzo che facciamo questo anno è notevole, con l’assestamento dovremo trovare altri 11 milioni per giungere a quota 51”, conclude Reschigna.
Torino, 20 luglio 2015

Europa al bivio: incontro pubblico ad Omegna

Mercedes Bresso
Mercedes Bresso

Europa al bivio: immigrazione, crisi ucraina e polveriera mediorientale.
E’ questo il titolo dell’incontro pubblico sul tema del ruolo dell”Europa al bivio tra protagonismo e subalternità.
Incontro che si svolgerà venerdì 22 maggio alle ore 21.oo, presso Villa Liberty (area Forum) ad Omegna.
Partecipa l’europarlamentare del PD Mercedes Bresso.
Organizza il circolo PD di Omegna/Cusio

Il cittadino come arbitro: ecco perché’ voto la riforma elettorale

On. Enrico Borghi
On. Enrico Borghi

Contributo dell’onorevole Enrico Borghi.
Alla vigilia dell’approvazione della nuova legge elettorale si sono moltiplicate le preoccupazioni nei confronti di una riforma che, combinata con la riforma costituzionale che trasforma il Senato, viene presentata come un rischio potenziale per la democrazia nel nostro Paese. E questo espediente retorico viene sollevato per giustificare il voto contrario, anche da settori importanti del Partito Democratico.

A mio giudizio, ed è’ il principale motivo per il quale esprimerò voto favorevole alla riforma (oltre che per il rispetto ad una comunità politica che ha deliberato tale decisione dopo mesi di discussioni) il cardine della riforma va invece in direzione opposta. La sua base fondamentale, infatti, sta nella volontà di attribuire al voto del cittadino il potere non solo di scegliere il partito e i suoi rappresentanti in Parlamento, ma anche il potere di indirizzo politico al futuro governo, conferendo alla scelta del cittadino – qualora condivisa dalla maggior parte dell’elettorato – la forza parlamentare sufficiente a sostenere un esecutivo solido e stabile.

Non si è’ ragionato a sufficienza, in questi giorni, sul problema cronico del sistema politico italiano: la instabilità dei suoi governi. Non vi è altro Paese nell’Unione Europea che abbia conosciuto nella sua storia democratica un tale frenetico avvicendarsi (63 governi nei 70 anni dal 1945 al 2015). Tale cronica debolezza non incide solo sulla forza del potere esecutivo, ma più profondamente sul potere del cittadino o, nel suo insieme, sul potere del popolo di imprimere alla politica un indirizzo, una “direzione”.

Pensare di dare stabilità al governo affidando ai partiti il compito di comporre delle alleanze in Parlamento è un errore storico: per decenni in Italia abbiamo affidato ai partiti (e partiti assai più stabili e strutturati di quelli attuali) questo compito e il risultato è quello che abbiamo ricordato, ossia una perenne instabilità.

Nella Prima Repubblica i partiti svolgevano una funzione “trascendente” rispetto alle istituzioni, perché era in essi che si compivano tutti i processi, sia quelli decisionali che di selezione della classe dirigente. Oggi questa funzione non e’ più riconosciuta, perché i partiti non hanno più la sussunzione nel proprio interno di pezzi di società. E tutto va quindi, in diretta, dentro le istituzioni . Perché, dunque sottrarre ai cittadini questo potere in una prospettiva che si vuole “democratica”, per rimanere confinati -per dirla alla Scoppola- dentro il perimetro di una “Repubblica dei partiti” che non c’è’ più ?

Nel solco dell’Ulivo (e di Ruffilli)

Questa domanda non è di oggi, ne’ inedita. All’inizio degli anni ’80, in corrispondenza con una forte crisi dei partiti, si ritenne che per rafforzare il potere del cittadino di dare al proprio governo un “indirizzo” politico con il proprio voto vi fossero solo due strade: la strada presidenzialista/semipresidenzialista e la strada di un rafforzamento del premierato entro la forma di una democrazia parlamentare.

Si ritenne allora – e in molti lo ritengono anche adesso – che la prima strada in Italia potesse essere soggetta a qualche rischio: in un Paese fortemente diviso, e democraticamente giovane, era opportuno che accanto a un governo espressione di una “parte” continuasse ad esservi una figura “terza” come il Presidente della Repubblica, capace di rappresentare l’unità nazionale e di svolgere nel caso di crisi – peraltro, come si è detto, continue – il ruolo di garante della Costituzione.

Dunque il rafforzamento del premierato, come alcuni sostengono, non rappresenta affatto lo scivolamento verso una deriva presidenzialistica, ma il suo contrario: l’alternativa al presidenzialismo dentro il permanere della forma parlamentare.Tertium non datur. Perché oggi, nell’età dell’integrazione europea, voler perpetuare la debolezza del governo – che deve esercitare un fondamentale potere “legislativo” a livello dell’Unione – non significa rafforzare il potere del popolo, ma significa spogliare il popolo del suo potere di governo. E non solo a livello nazionale, ma ancor di più a livello sovranazionale, dove si prendono le decisioni più rilevanti.

Per questo, trent’anni fa nella Commissione Bozzi, una serie di politici e intellettuali (Pasquino, Barbera, Scoppola, Andreatta, De Mita, Ruffilli e altri) trovarono una significativa convergenza sulla necessità di rafforzare il potere del premier agendo sulla legge elettorale e correggendo il sistema proporzionale in senso maggioritario in modo da consentire al cittadino – e non alle trattative tra i partiti – di determinare l’indirizzo politico conferendo al governo una solida maggioranza parlamentare. Si parlò allora di “restituire lo scettro al Principe” (Pasquino) o di trattare il “cittadino come arbitro” (Ruffilli). L’idea di un premio di maggioranza da attribuire a chi supera il 40% o a chi vince un ballottaggio nasce in quell’orizzonte per contrastare la proposta presidenzialista, in un’epoca in cui la personalizzazione della politica era di là da venire.

L’evoluzione del sistema politico italiano negli anni Novanta, ivi compresa la legge Mattarella, va in questa stessa direzione. E così la tesi 1 dell’Ulivo sul “Governo del Primo Ministro”. Si ritiene cioè fondamentale conferire al cittadino la possibilità di scegliere il proprio governo: da questo momento in poi le competizioni elettorali si svolgono tra parti politiche guidate da leader che incarnano schieramenti alternativi e che chiedono agli elettori il consenso. Berlusconi, Prodi, Rutelli, Veltroni, Bersani – sia con il Matterellum, che con il Porcellum – stanno dentro tutti questo schema che nessuno nel centrosinistra si è mai sognato di mettere in discussione.

Al contrario ci si è sempre preoccupati delle debolezze o delle falle della legge elettorale che, agendo su due Camere diverse,finiva per funzionare male e quindi per produrre maggioranze diverse.

Per questo vi è sempre stata una generale concordia sulla necessità di dare coerenza al sistema elettorale senza tornare indietro di 35 anni quando i partiti si presentavano agli elettori con le mani libere e formavano il governo attraverso complicate trattative dopo il voto. In questa prospettiva togliere al Senato il potere di fiducia e dare coerenza al sistema elettorale era un obiettivo da tutti condiviso all’inizio della legislatura.

Parlamento centrale, ma quale autoritarismo?

Oggi, invece, si fanno più insistenti le critiche di chi vede nel progetto di riforma una deriva presidenzialista o addirittura autoritaria. Ma nel modello proposto non vi è una dipendenza diretta del governo dal voto popolare: rimane in capo al Presidente della Repubblica il potere di conferire l’incarico e al Parlamento il potere di votare o meno la fiducia. Cosa che in caso di crisi consente, come è regolarmente avvenuto, di avere governi che si formano in Parlamento senza passare dal voto, là dove la situazione economica o altre circostanze sconsiglino il ricorso alle urne. Sostenere che con le modifiche della Costituzione e della legge elettorale si passerebbe ad un’altra forma di governo vuol dire non aver letto le carte oppure voler mantenere il nostro Paese in una forma del tutto anomala di democrazia parlamentare che in un sistema sempre più integrato a livello europeo (e noi siamo per una ancora maggiore integrazione europea) condannerebbe non il nostro Governo, ma l’intero nostro Paese a contare poco o nulla, come appunto è avvenuto tante volte in passato.

Con la riforma i poteri del Parlamento rimangono intatti. Qualsiasi sia l’esito delle elezioni, il Parlamento rimane sovrano e può far cadere il Governo tutte le volte che vuole, senza essere costretto a dare vita a un nuovo Governo con un meccanismo di sfiducia costruttiva o senza essere costretto a sciogliere se stesso. Altro che strapotere del Governo sul Parlamento! Quanto poi allo spostamento del potere legislativo dal Parlamento al Governo che sarebbe l’inevitabile conseguenza di questa riforma, si guardino i dati: nella XV legislatura (2006-2008) sotto il governo Prodi solo il 10% dei provvedimenti legislativi sono il frutto di iniziativa parlamentare, mentre nella XVI legislatura (2008-2013) sotto i governi Berlusconi e Monti la percentuale sale al 22%. Si tratta dunque di un fenomeno ben più risalente e di dimensione europea, che peraltro ha come sua spiegazione proprio la forma della democrazia parlamentare nella quale il Governo non è l’alter ego del Parlamento (come invece nel Presidenzialismo americano) ma il braccio esecutivo della sua maggioranza. Si tratta piuttosto di riconoscere e valorizzare l’apporto che il Parlamento dà ai provvedimenti anche varati dal Governo attraverso il lavoro delle Commissioni e dell’Aula, quando non vengono messe in atto manovre ostruzionistiche, favorite da un regolamento consociativo da superare. E ancora di potenziare il potere di indirizzo: soprattutto quando il Parlamento deve determinare l’operato del Governo in sede europea (indirizzo oggi affidato ageneriche mozioni). E poi di potenziare il potere di controllo anche attraverso un adeguato riconoscimento del ruolo dell’opposizione , che oggi, finalmente, trova spazio nella riforma costituzionale.

E, in ogni caso, più che il problema del premio alla lista o alla coalizione, il tema pare quello del trasformismo parlamentare: se non si cambiano i regolamenti parlamentari, dopo le elezioni sarà sempre possibile e magari anche conveniente uscire dal gruppo sotto il cui simbolo si è stati eletti e dare vita a un altro gruppo. Se la maggioranza parlamentare ha 340 deputati e il quorum alla Camera è 316, basta un gruppo di 30 deputati per mettere sotto il governo !

Il nodo e’ l’articolo 49 della Costituzione

Non servono solo buone regole, insomma; servono buoni soggetti e dunque il problema è quello dei partiti. Occorre fare ogni sforzo per avere dei partiti democratici, trasparenti, plurali ma coesi, non luoghi di incursione di gruppi,lobbies o peggio. In questo quadro va collocata l’ultima questione,quella delle preferenze. Naturalmente il tema è la libertà di scelta dell’elettore dei propri rappresentanti. Bisogna però riconoscere che tale tema non può che declinarsi attraverso la mediazione di partiti o gruppi organizzati. Nessun cittadino in nessun sistema elettorale può votare chi gli pare. Si vota sempre un nominativo proposto da un partito o da un insieme di cittadini. Dunque i partiti – o loro analoghi – hanno il compito comunque di selezionare una possibile classe dirigente, di selezionare 1, 2, 5 o 30 nomi da sottoporre al vaglio degli elettori. Anche con le preferenze esiste un potere del partito di escludere qualcuno da una lista o di metterlo capolista o di favorirlo mandandolo in televisione o sostenendolo in altro modo. Non ci giriamo attorno. La responsabilità della selezione non si può scaricare sugli elettori: sono i partiti a fare la proposta e spesso a orientare il voto.

E qui sta certamente la debolezza del sistema Italia. Una debolezza complessiva non solo dei partiti. Siamo in una stagione in cui il nostro Paese è in affanno: non riusciamo a trovare un sistema sensato di selezione della classe dirigente: insegnanti, studenti, dirigenti scolastici, primari di medicina, professori universitari, manager pubblici. Insomma, in ogni settore pubblico in cui si tratta di operare delle selezioni continuiamo a cambiare i meccanismi, ricorriamo tutti al Tar, riempiamo le pagine dei giornali di ogni possibile scandalo. Insomma odiamo la classe dirigente. Odiamo il fatto che ve ne sia una. E quindi non ci importa selezionarla. Ci basta distruggerla o renderla impotente. Sarebbe simpatico come meccanismo se non avesse in alcuni settori (scuola, università, pubblica amministrazione e sanità ad esempio) effetti devastanti sulla vita del cittadino. Nel caso della classe politica forse è meno grave, ma dato che siamo in un sistema integrato europeo, la debolezza della nostra classe dirigente in quella sede ha anch’essa effetti negativi.

Dunque a qualsiasi sistema si ricorra, i partiti devono riprendersi la capacità e la responsabilità di proporre una classe dirigente degna di questo nome. Il Pd si è inventato le primarie e certo sono uno strumento formidabile. Non esente però da possibilità di inquinamento e comunque da sé non sufficiente a garantire una scelta che privilegi, almeno in parte, le competenze. In questo senso l’ipotesi di avere un mix di parlamentari scelti dal partito e di parlamentari scelti dagli elettori non sarà la migliore del mondo, ma ha un senso in linea di principio. Se poi nella realtà i partiti la vorranno usare per il meglio o invece come luogo di spartizione tra le tribù di fedeli all’uno o all’altro capo, è un’altra faccenda. Dopo la riforma costituzionale e la riforma elettorale, bisognerà finalmente dare corpo alla riforma dei partiti e imboccare con decisione l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per dire come si fa oggi a declinare in maniera moderna in principio con il quale un partito e’ il modo per concorrere in forma democratica alla vita politica di una nazione. E anche su questo piano, speriamo che una più forte integrazione europea ci aiuti.